C'è un grande problema nel mercato mondiale dei prodotti alimentari: tutto deve arrivare dappertutto, in nome del duplice imperativo, da una parte della crescita economica di chi produce, dall'altra del diritto da parte del consumatore ad avere a disposizione ogni bene immaginabile.
E' indubbiamente bello poter mangiare i pregiati formaggi alpini o una fetta di un formaggio olandese, così come è bello che nel mondo si possa comprare la pasta italiana, che è l'unica decente; ma il raggiungimento di quest'apparente forma di giustizia del mercato nasconde alcune gravi conseguenze. La prima è che un bene alimentare nato nella tradizione gastronomica di un luogo, per essere esportato, deve aumentare la propria produzione a livelli industriali tali da sopportare le richieste di un mercato via via sempre più ampio, conformemente alla legge della crescita. Questo lo porterà inevitabilmente ad uno scadimento della qualità, giacché alle tecniche artigianali si sostituiranno i criteri di convenienza e di compromesso tipici dell'industria alimentare, che ne sviliranno la genuinità in nome della trasportabilità a lungo raggio, della conservabilità e dell'omologazione dei gusti. La seconda conseguenza è che sul prezzo del prodotto incideranno sempre di più i costi di trasporto ed eventuali dazi doganali, ovvero che i trasporti aumenteranno di volume immettendo nell'aria enormi quantità di polveri sottili (i camion vanno a diesel e non sono affatto ecologici...), intasando le strade e incrementando quindi anche il rischio di incidenti; tra l'altro, maggiore è il raggio di esportazione, più passaggi ci sono: questo porta ad un impoverimento dei produttori a tutto vantaggio degli intermediari. La terza è che il prodotto e il territorio perderanno il loro rapporto esclusivo, intimo: un rapporto storicamente determinato, che quindi è studiabile con criteri di ricerca scientifici, ma che significa anche possibilità di sviluppo di un turismo legato al cibo.
Per questo bisognerebbe ricreare un legame saldo fra i produttori e i consumatori, che privilegiasse il rapporto diretto e fiduciario tipico delle produzioni artigianali (anche se molte produzioni saranno nel frattempo passate alla dimensione della piccola industria), la stagionalità e la tipicità delle materie prime di un luogo. Tutto questo si chiama farmer's market, letteralmente, dall'inglese, "mercato del fattore". Il farmer's market è un'idea sorta negli Stati Uniti, che in alcuni Paesi europei è già una realtà diffusa, mentre da noi -ovviamente- è ancora un miraggio. Però qualcosa comincia a muoversi.
A Monselice (PD) è stata inaugurata venerdì scorso la sede del Consorzio "Agrimons", un ottimo esempio italiano di farmer's market nato dall'impegno di una trentina di aziende; presenti -oltre il presidente del consorzio Mauro Bertin- il Ministro per le politiche agricole Paolo De Castro, il presidente di Coldiretti Padova Marco Calaon, il direttore Walter Luchetta, l'assessore al commercio del Comune di Monselice Bruno Cama e l'assessore provinciale all'agricoltura Luciano Salvò.
I farmer's markets sono stati istituiti per legge con la Finanziaria 2006. Quel che ora bisogna aspettarsi ragionevolmente è un impulso all'iniziativa, la quale, senza sottrarre grosse quote di mercato alla concorrenza, permetterebbe però di creare un mercato locale equo, abbassando i costi al consumatore ma aumentando i guadagni al produttore. Attualmente, per inquadrare normativamente i farmer's markets, è in corso da parte del Governo un accordo con l'ANCI (Ass. Naz. Comuni Italiani). Comprare locale, specialmente se si può farlo direttamente dai produttori, significa sapere ciò che si mangia. Inoltre, è un'iniziativa etica e responsabile che riporta il commercio nel solco di una giustizia sociale dalla quale troppo spesso anche l'industria alimentare si allontana.
E' indubbiamente bello poter mangiare i pregiati formaggi alpini o una fetta di un formaggio olandese, così come è bello che nel mondo si possa comprare la pasta italiana, che è l'unica decente; ma il raggiungimento di quest'apparente forma di giustizia del mercato nasconde alcune gravi conseguenze. La prima è che un bene alimentare nato nella tradizione gastronomica di un luogo, per essere esportato, deve aumentare la propria produzione a livelli industriali tali da sopportare le richieste di un mercato via via sempre più ampio, conformemente alla legge della crescita. Questo lo porterà inevitabilmente ad uno scadimento della qualità, giacché alle tecniche artigianali si sostituiranno i criteri di convenienza e di compromesso tipici dell'industria alimentare, che ne sviliranno la genuinità in nome della trasportabilità a lungo raggio, della conservabilità e dell'omologazione dei gusti. La seconda conseguenza è che sul prezzo del prodotto incideranno sempre di più i costi di trasporto ed eventuali dazi doganali, ovvero che i trasporti aumenteranno di volume immettendo nell'aria enormi quantità di polveri sottili (i camion vanno a diesel e non sono affatto ecologici...), intasando le strade e incrementando quindi anche il rischio di incidenti; tra l'altro, maggiore è il raggio di esportazione, più passaggi ci sono: questo porta ad un impoverimento dei produttori a tutto vantaggio degli intermediari. La terza è che il prodotto e il territorio perderanno il loro rapporto esclusivo, intimo: un rapporto storicamente determinato, che quindi è studiabile con criteri di ricerca scientifici, ma che significa anche possibilità di sviluppo di un turismo legato al cibo.
Per questo bisognerebbe ricreare un legame saldo fra i produttori e i consumatori, che privilegiasse il rapporto diretto e fiduciario tipico delle produzioni artigianali (anche se molte produzioni saranno nel frattempo passate alla dimensione della piccola industria), la stagionalità e la tipicità delle materie prime di un luogo. Tutto questo si chiama farmer's market, letteralmente, dall'inglese, "mercato del fattore". Il farmer's market è un'idea sorta negli Stati Uniti, che in alcuni Paesi europei è già una realtà diffusa, mentre da noi -ovviamente- è ancora un miraggio. Però qualcosa comincia a muoversi.
A Monselice (PD) è stata inaugurata venerdì scorso la sede del Consorzio "Agrimons", un ottimo esempio italiano di farmer's market nato dall'impegno di una trentina di aziende; presenti -oltre il presidente del consorzio Mauro Bertin- il Ministro per le politiche agricole Paolo De Castro, il presidente di Coldiretti Padova Marco Calaon, il direttore Walter Luchetta, l'assessore al commercio del Comune di Monselice Bruno Cama e l'assessore provinciale all'agricoltura Luciano Salvò.
I farmer's markets sono stati istituiti per legge con la Finanziaria 2006. Quel che ora bisogna aspettarsi ragionevolmente è un impulso all'iniziativa, la quale, senza sottrarre grosse quote di mercato alla concorrenza, permetterebbe però di creare un mercato locale equo, abbassando i costi al consumatore ma aumentando i guadagni al produttore. Attualmente, per inquadrare normativamente i farmer's markets, è in corso da parte del Governo un accordo con l'ANCI (Ass. Naz. Comuni Italiani). Comprare locale, specialmente se si può farlo direttamente dai produttori, significa sapere ciò che si mangia. Inoltre, è un'iniziativa etica e responsabile che riporta il commercio nel solco di una giustizia sociale dalla quale troppo spesso anche l'industria alimentare si allontana.
(Fonte: GreenPlanet)
Per approfondire:
www.farmersmarket.it, il portale italiano dei farmer's markets
Per rendersi conto dell'ampiezza del fenomeno negli Stati Uniti: qui e qui
Per un caso italiano a Taranto leggi qui
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